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THE CHURCH "Gold Afternoon Fix" (1990, Arista): una recensione emotiva

Steve Kilbey, notoriamente, non ha mai amato questo disco dei suoi The Church. Alcune delle ragioni sono comprensibili: uscito subito dopo il loro disco di maggior successo (quello Starfish che contiene la loro canzone ad oggi più famosa, Under The Milky Way), le vendite di Gold Afternoon Fix furono molto inferiori alle aspettative, dando inizio di fatto a un periodo di declino della band (non artistico, per fortuna) culminato nella fine del contratto major con la Arista, nel 1994 (all'epoca di Sometime Anywhere), che faceva presagire una possibile fine della band stessa. Così non fu, grazie al cielo. Inoltre anche l'unità del gruppo, un quartetto immutato da quasi dieci anni, si incrinò con l'abbandono dello storico batterista Richard Ploog (il gruppo per finire l'album si affidò ad una drum machine), per ragioni personali (stress, disillusione). I grossi problemi di dipendenza di Kilbey (eroina) poi, si sono manifestati proprio in questo periodo, altra ragione non di poco peso, immagino, nelle considerazioni di Kilbey al riguardo del disco. Per non parlare del titolo: tra i molti significati della parola "fix" infatti non sorprende trovare anche "iniezione di eroina o altro narcotico". Ma come in tutto ciò che Steve Kilbey ha scritto niente è mai ciò che sembra, tutto ha sempre molti significati, molte le interpretazioni possibili: ogni testo di questo straordinario songwriter è un capolavoro di ambiguità,  intelligenza e lirismo.
Eppure non sono pochi i fan che portano Gold Afternoon Fix nel cuore come uno dei dischi più belli dei Church. Per molti addirittura è il loro disco più bello. E tra questi ci sono anche io, anche se credo che di dischi bellissimi ne abbiano fatti parecchi. 
Gold Afternoon Fix è il disco che mi ha fatto conoscere i Church e anche per questo motivo gli sono molto affezionato. I pochi che conoscono la mia poesia poi sanno quanto io sia legato ad un immaginario dove la parola "pomeriggio" viene ripetuta spesso, assumendo di fatto la funzione di sigillo e cifra stilistica. Il mio libro del 2011 si intitola non per caso Magari in un'ora del pomeriggio
Questo disco è senza ombra di dubbio una delle fonti della mia poetica. La potenza evocativa del tardo pomeriggio mi affascina da quando ero un bambino: il giorno muore offrendoci una luce calda e struggente che richiama la nostra finitudine inesorabilmente. Tutto questo, intuito ad un livello profondo e non completamente conscio, ha immediatamente trovato una consacrazione, un avallo, con questo disco dei Church. Il pomeriggio dei Church aveva la stessa luce, lo stesso significato e la stessa portata emotiva. Di colpo le colline di galestro dove io e il mio amico di infanzia Kristian salivamo d'estate armati di boombox caricato con la musicassetta di Gold Afternoon Fix erano il deserto australiano. 
Le storie che Steve Kilbey ci racconta, in una cornice di sognante perfezione chitarristica, parlano di perdenti e viaggi astrali, di epifanie e città trasfigurate, di sogni atavici e nomi dimenticati, di solitudini e ombre che ridono di noi, di terre incognite e di eterno femminino in un caleidoscopio di colori caldi solo apparentemente confortevoli. Ogni brano è un mondo a parte, chiuso nella sua perfezione. Immense Pharoah, Metropolis, Essence, Transient, Disappointment e la conclusiva, epica, definitiva Grind. E forse, alla fine, Steve Kilbey, fuori dalla dipendenza, è finalmente riuscito a superare il disamore verso il disco se un recente DVD dei Church che testimonia il tour proprio di Gold Afternoon Fix è stato intitolato Long Distance Century Buzzes and Fades, un verso che viene proprio da Grind.
Gold Afternoon Fix è un disco totalmente pomeridiano, che offre la gloria della luce prima del declino, la grazia degli attimi prima della fine: l'ineluttabile viene accettato completamente, la sconfitta è certa ma, prima, viene una bellezza impareggiabile.










RIDE: Going Blank Again (1992, Creation Records)

Da oggi inizio a pubblicare un nuovo tipo di post (nuovo per questo blog, intendo). Si tratterà di "recensioni emotive" in cui parlerò dei dischi che amo in modo molto personale, pescando in un arco di tempo non prestabilito, ma cercando di mettere in luce la portata del loro impatto nel mio percorso di "formazione continua" in campo artistico. Il primo post è dedicato ad un mio grande amore dei primi anni '90, i Ride.


RIDE: Going Blank Again (1992, Creation Records)




1992: gruppo di punta della Creation Records di Alan McGee in quel periodo (insieme ai Primal Scream) e alfieri dello shoegaze, i Ride giungono alla prova del secondo album stemperando i furori noise del bellissimo debutto "Nowhere" (1990), in favore di composizioni più articolate ed eleganti. L'album è molto più "prodotto" rispetto al suo predecessore e la differenza si sente tutta. In pratica il noise è relegato solo alla coda dell'epica "Leave them all behind", pezzo di sicuro memorabile e altisonante dichiarazione di intenti, sparato subito all'inizio del disco in tutti i suoi gloriosi 8'16''. Il resto dell'album prosegue nei toni di una piacevole psichedelia virata pop che regala gioellini ancora oggi gustosissimi in cui si possono apprezzare gli intrecci chitarristici e vocali (con magnifiche armonizzazioni) del duo Andy Bell/Mark Gardener. Qua e là compaiono anche le tastiere, che fanno bella mostra ad esempio in "Chrome Waves", conferendo al brano una decisa nota wave molto evocativa. I Ride erano destinati al successo. Poi, nel 1994, la Creation mise sotto contratto gli Oasis e la storia proseguì non come avrebbero voluto i Ride, immagino. Significativo a questo riguardo il fatto che Andy Bell sia poi entrato negli Oasis come bassista (e, aggiungo io, sacrificando non poco il suo notevole talento di songwriter). 
Nel 1992 avevo 18 anni e questo disco (comprato a Londra, da Harrod's, in musicassetta) rappresentò per molti mesi "la" musica. Come chitarrista imparai subito i riff di "Leave them all behind" e quando ho iniziato a suonare anche il basso una tappa obbligata fu ripercorrere le note di quel glorioso giro. Dai Ride per primo ho imparato che gli accordi aperti (sulla chitarra) e la distorsione possono fare miracoli, permettendoti di suonare cose semplicissime ma di grande effetto. I Ride, con "Leave them all behind" in particolare, sono riusciti a suscitare in me quel perfetto insieme di sensazioni che (probabilmente da allora) ho sempre cercato di evocare in qualsiasi mia espressione artistica: nostalgia, sospensione, ineluttabilità, un senso di perdita inesorabile ma dai contorni dolci. Prima di loro avevo provato le stesse cose solo nei dischi degli amatissimi The Church. Non ho un nome per questa sensazione, forse dovrei chiamarla melanconia. Forse. 


Ride



Un racconto di Steve Kilbey: "Dimenticare tutto",


Steve Kilbey è una personalità eclettica e un artista di prima grandezza di cui ho avuto modo di parlare anche in passato. Conosciuto principalmente per le attività musicali con la band The Church e per gli innumerevoli altri progetti solisti o in collaborazione, è anche poeta, scrittore e pittore. Instancabile blogger, da anni riversa i propri pensieri in rete quotidianamente, in forme ora vicine al flusso di coscienza ora al diario ora alla cronaca e molto spesso alla poesia.
Il suo secondo disco solista, Earthed (1987), conteneva una raccolta di racconti sorprendenti e anzi la musica di quel disco era stata pensata proprio come colonna sonora per la lettura del libro. Ricchi di illuminazioni e intuizioni geniali, i racconti di Earthed non sono mai stati pubblicati in Italia. Quello che presento è, secondo me, uno dei vertici di  Earthed: un racconto dove la poetica visionaria, malinconica, ironica e surreale di Steve Kilbey si dispiega interamente, proprio come negli episodi più riusciti della sua sterminata discografia.

EarthedSteve Kilbey
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Dimenticare tutto

Sono in macchina insieme ad un uomo anziano. Forse sto sognando e non me ne rendo conto. Gli chiedo dove stiamo andando ma mi risponde che non lo sa. Guardo fuori e osservo il paesaggio: siamo da qualche parte al sud e tutto è verde, di un verde quasi tangibile. I petali iniziano a diventare gialli e l’uomo continua a guidare su una strada solitaria. Tutto prosegue nello stesso modo per oltre cento miglia poi l’uomo svolta in una strada laterale costeggiata da olmi. Ci fermiamo. Gli chiedo quanti anni ha. Mi osserva con uno sguardo vuoto, mi dice che compirà 87 anni tra pochi mesi e scende dalla macchina. Non so se devo scendere anche io o aspettarlo. Apro il cassettino dell’auto. E’ vuoto. Un uccello su un albero vicino mi guarda in modo strano. Potrebbe essere un’ara o un pappagallo. Oltre il prato c’è una casa con il tetto rosso. Scendo dalla macchina e inizio a seguire il sentiero che porta alla casa. Ci sono dei cervi che mi fissano con uno sguardo dolente. Il cerbiatto più piccolo zoppica vistosamente; non ho motivo di sentirmi colpevole perché non ho mai mangiato carne di cervo. Da qualche parte, lontano, un bambino sta piangendo e un uomo grida ma non riesco a capire le parole. Il pappagallo si alza in volo, risalendo l’aria immobile, pigramente. C’è un campo da tennis abbandonato cui fanno da sentinella due leoni di pietra e una grande farfalla nera, come di velluto, ferma sulla manovella arrugginita della rete. L’erba è umida. Dei mirtilli crescono vicino ad un gazebo e c’è una scala appoggiata al muro di mattoni che divide il giardino da tutto quello che si trova oltre. L’uomo anziano esce fuori dalla casa attraversando il prato con passo lento. Indossa una sorta di tuta da meccanico e ha un fazzoletto macchiato in testa. La sua barba è bianca, rigida. Mi dice che non porta buone notizie mentre si siede nell’erba con fatica e rumore di ossa, sbuffando. Tira fuori una pipa e l’accende, rilasciando nell’aria un’ampia voluta di fumo pungente che si disperde tremolando nel tenue blu del cielo. Dice che sua moglie soffre di amnesia contagiosa. Non ricordo molto altro. Mi siedo accanto a lui nell'erba e chiudo gli occhi. E’ un giorno incantevole per dimenticare tutto.

(1987, Steve Kilbey. Traduzione: Davide Valecchi, 2012)

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Isidore: Life Somewhere Else

Ci sono artisti che attraversano il tempo fedeli alla propria ispirazione, senza mai tradirla in nome di altro che non sia il rispetto della propria creatività, assecondando un'urgenza che sembra non conoscere pause e che si rinnova continuamente. Steve Kilbey è uno di questi artisti. Autore di migliaia di canzoni, poeta, scrittore, musicista di una classe e di una grazia non ordinaria, ormai prossimo ai 60 anni, ha ancora un fuoco dentro che sembra bruciare più di prima. E così capita che uno dei tanti progetti a lato della sua band principale (The Church), ovvero quegli Isidore di cui dopo l’esordio del 2004 sembravano essersi perse le tracce, produca un capolavoro assoluto. Per chi, come me, conosce quasi ogni incarnazione della storia musicale di Kilbey, “Life Somewhere Else” (Communicating Vessels, 2012, disponibile in cd e vinile) rappresenta una miracolosa summa di tutti quegli elementi che mi hanno fatto amare questo artista. E buona parte del merito va sicuramente all’altra metà degli Isidore ovvero quel Jeffrey Cain (degli americani Remy Zero) che sembra essere stato capace di condurre e incanalare l’ispirazione di Kilbey verso l’eccellenza, tagliando fuori il superfluo o quelle risacche di auto-indulgenza che non sempre il nostro in passato è stato capace di evitare, soprattutto nei lavori solisti. Se volessimo tentare un’analisi dei contenuti musicali potremmo dire che gli elementi che lo compongono hanno origine nella migliore new wave, nella migliore psichedelica, nel miglior indie-rock cui si aggiunge una leggera tinta elettronica. Ma tutto, mi preme sottolineare a scanso di equivoci, suona completamente contemporaneo. Paradossalmente “Life Somewhere Else” potrebbe essere considerato il disco perfetto dei Church, il disco mancante, ovvero il disco che la band, nonostante decine di lavori prossimi alla perfezione, non è mai stata in grado di produrre. Qui ogni dettaglio ha ricevuto una cura estrema. Tutto è eleganza, equilibrio, potenza evocativa, bellezza, emozione. Questo disco fa mancare il fiato.